Referendum trivelle e dintorni

Il 17 aprile gli italiani, compresi quelli residenti all’estero, saranno chiamati a votare su un referendum abrogativo, mi sembra giusto ricordarlo, voluto da ben 9 regioni italiane.

Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise (ne bastavano 5, per la Costituzione). Inizialmente erano dieci, poi l’Abruzzo si è tirato indietro. A parte la Sicilia, la Toscana e l’Emilia, sono rimaste fuori tutte le regioni che non sono bagnate dal mare (capirete cosa gliene importa all’Umbria, alla Valle d’Aosta o al Trentino se trivellano in mare)!

Il quesito lo si può trovare in rete. Cerchiamo di capirne insieme la logica, poi sarà naturale andare a votare e votare SI’ per l’abolizione della legge.

Come funziona in generale la norma sulle trivellazioni? Le trivellazioni in Italia vengono effettuate sulla base di una concessione che dura inizialmente 30 anni, prorogabile per due volte, cinque anni ciascuna. In totale: 40 anni. Più altri cinque possibili.
Dopo i 40/45 anni, secondo la normativa vigente oggi, scaduta la concessione finisce la trivellazione.
Il referendum contesta un provvedimento del governo Renzi inserito nella legge di stabilità 2016. Tale norma dice che anche quando il periodo concesso finisce, l’attività può continuare fino a che il giacimento non si esaurisce.
I referendari chiedono che questa novità sia cancellata e si torni alla scadenza “naturale” delle concessioni.
Il quesito del referendum non riguarda possibili nuove trivellazioni entro le 12 miglia, che rimangono vietate per legge. Il referendum decide il destino delle trivellazioni già esistenti entro le 12 miglia. Il decreto legislativo 152 prevede già il divieto di avviare nuove attività entro le 12 miglia, per cui il referendum agisce solo su quelle già in essere.
Se al referendum del 17 aprile vincesse il SI, entro 5-10 anni le concessioni verrebbero a scadere e quindi l’attività estrattiva dovrebbe cessare. Le concessioni hanno adesso una durata di trent’anni, prorogabili di dieci più altri cinque. Con il Sì non si elimina la possibilità di proroga: ci sarebbe la cessazione nel giro di alcuni anni delle attività attualmente in corso, tra cui quelle di Eni, Shell e di altre compagnie internazionali. Le ragioni del sì sono sostenute dal Comitato No Triv.
La produzione italiana è in calo: secondo i dati del Ministero dello Sviluppo economico, le 135 piattaforme nei mari italiani hanno prodotto, nel 2015 circa 4,5 milioni di tonnellate di gas e 750 mila di greggio. Nel 2014 erano, rispettivamente, 4,8 milioni e 754 mila.
I giacimenti di gas più ricchi sono nell’Adriatico settentrionale; quelli di petroli sono al largo della Basilicata. Gli altri non sono abbastanza grandi da contribuire in maniera significativa alla riduzione della dipendenza energetica del nostro Paese.
Una piattaforma petrolifera non impiega un esercito di operai. Il maxi-progetto Ombrina mare, se fosse stato portato a termine, avrebbe creato solo 24 posti di lavoro.
Il prolungamento delle attività estrattive fino ad esaurimento del giacimento, per le 36 concessioni produttive entro il limite delle 12 miglia marine (5 di gas), non è decisivo per i destini delle aziende e non garantisce continuità alla produzione nazionale (tanto meno per quelle del gas). I trend globali stanno virando verso le energie rinnovabili, in un processo di transizione dell’occupazione costante, anche se lento.

Se poi consideriamo gli scandali che vedono protagonisti la ministra Guidi e il suo fidanzato Gemelli in affari con la Total, l’ammiraglio della Marina De Giorgi indagato, sindaci e amministratori corrotti a causa del greggio, è probabile che lo stesso tzunami che travolse il referendum sul nucleare l’indomani del disastro di Fukushima, si abbatta sul referendum contro le trivelle.

I fautori del NO affermano che si salverebbero 7.000 posti di lavoro in Italia. Ammesso e non concesso, quanto personale sarebbe locale? Pochissimo. Ma se invece di pensare a salvare quei posti creati dalle multinazionali che con regalano niente (rimando alla lettura del libro dell’amico Pino Aprile, “Il Sud puzza”, edito da Piemme, autore della fortunata serie di libri iniziata con “Terroni” e proseguita con altri quattro titoli, l’ultimo dei quali riguarda la Sardegna “Terroni ‘ndernescional”) si creassero altre centinaia di migliaia di posti di lavoro nel campo turistico, agroalimentare, delle energie alternative, invece di perderli non sarebbe meglio? Perché distruggere il territorio e perdere posti di lavoro importando latte in polvere dall’estero quando si potrebbe produrre il latte in Italia evidenziando in etichetta la filiera produttiva (vedi protesta della Coldiretti di questi giorni)?

Desta scalpore la decisione del governo di non abbinare il referendum abrogativo con le elezioni amministrative (e che costa circa 300 milioni euro in più alla collettività), così come la proposta dei vertici del Partito “Democratico” che ha invitato all’astensione! Da parte mia, andrò convintamente a votare. Anzi il 10 parteciperò e volantinerò al Poetto per l’abrogazione delle trivelle e il Sì al referendum. Del resto non sarò l’unico… molti esponenti di associazioni, alcuni partiti politici di sinistra (La Base, Sel, Upc), i grillini, esponenti di destra, tutte le associazioni ambientaliste, perfino l’Assocaccia, sono per il Sì all’abrogazione della norma introdotta da Renzi.

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Alcuni link interessanti:

 

http://www.greenpeace.org/

 

http://www.lastampa.it/

 

https://www.facebook.com/

 

 

 

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2016-04-03

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