Los Angeles, di notte. Non la città delle stelle, ma quella delle ombre lunghe che si stirano sui parabrezza. Nicolas Winding Refn nel 2011 dirige Drive, un film che è un cult immediato. Ryan Gosling, lo “Straniero senza nome” del nuovo millennio, guida e tace. È un eroe silenzioso che non urla mai: lascia parlare il motore, il sangue e soprattutto la musica.
La colonna sonora è l’altro vero protagonista. Nightcall di Kavinsky ti schiaffa subito nella corsia sbagliata: pulsazioni sintetiche, voce distorta, promessa di violenza imminente. Poi arriva A Real Hero dei College & Electric Youth, che non è un titolo ma una sentenza. La canzone racconta quello che Gosling non può dire: che l’eroe è reale, ma fragile, consumato dal suo stesso mito.
Ogni scena sembra scritta sulla musica, non il contrario. Non è cinema che si limita ad accompagnare: è un videoclip espanso, dove la città diventa discoteca muta, le luci al neon battono il tempo e il volante è un metronomo. Carey Mulligan è Irene, la vicina fragile che diventa miraggio e ancora di salvezza. Bryan Cranston è lo zio zoppo che gli procura i lavori, Albert Brooks un criminale lucido e spietato, Oscar Isaac il marito appena uscito di prigione. Un cast che brilla di contrasti, come fari che lampeggiano nella notte; Drive è un western travestito da noir, un amore impossibile che corre in autostrada senza mai fermarsi. Gosling è cowboy e santo, killer e salvatore. Tutto in silenzio. Tutto a ritmo di synth.
La domanda è: perché ci resta addosso così tanto? Forse perché ci mostra un lato che non confessiamo: l’idea che anche noi, nella nostra macchina grigia, in mezzo al traffico del lunedì, potremmo diventare qualcun altro se solo partisse la canzone giusta.
E allora ecco che la colonna sonora non è più musica. È il pedale premuto fino in fondo, è il battito che accelera, è la possibilità che da un momento all’altro la nostra vita faccia uno scarto, un’inversione, un colpo di sterzo definitivo.
Non serve parlare. Basta guidare.

