Mai come in questi ultimi anni il tema della scuola è stato al centro del dibattito pubblico con una infinità di temi, spesso da cronaca nera, che variano dalle carenze strutturali degli edifici, alla violenza, sia per il fenomeno del bullismo che per gli atti di violenza verso i docenti da parte di studenti e genitori; alla critica verso i programmi scolastici, considerati spesso inadeguati per la società attuale e futura, alla preparazione degli studenti considerata in troppi casi inadeguata e insufficiente.
Questi fatti spesso oscurano, purtroppo, il lavoro di tanti docenti che con la loro preparazione, competenza e amore per l’insegnamento fanno la differenza in una scuola che appare sempre più fragile.
E’ il caso della Prof. Elisabetta Buono, classe 1962, che insegna Lettere al Liceo Artistico Brotzu di Quartu S. dove ricopre l’incarico di Animatore Digitale (Laureata in Filosofia, Scienze e tecniche Psicologiche; Scienze dell’Educazione e in possesso di molte altre specializzazioni; formatrice, esperta di didattica con le nuove tecnologie), a cui ho rivolto alcune domande per comprendere meglio la scuola di oggi.
Alle spalle ha tanti anni di insegnamento. Come è cambiata la scuola in questi ultimi decenni?
Per rispondere a questa domanda avrei necessità di molto spazio. Cercherò di essere sintetica.
Insegno dal 1986; ho vissuto in prima persona i cambiamenti che hanno caratterizzato non solo la scuola ma la società nel suo complesso. L’esperienza di insegnante non può che essere strettamente legato al contesto sociale e alla trasformazione di altre agenzie educative come la famiglia, ma non solo. Oggi, per esempio, abbiamo consapevolezza di cosa siano i disturbi specifici, come affrontare il disagio adolescenziale a scuola.
Quando ho iniziato, avevo 23 anni, una supplenza durata un anno in un Istituto Tecnico di provincia. I miei studenti erano, usando un termine che rende l’idea, “scolarizzati”. Le famiglie rispettose. Il ruolo e l’autorevolezza della figura dell’insegnante non venivano messi in discussione. Avevo solo due classi in cui facevo 14 ore (Italiano e Storia) e per le restanti 4 ero a disposizione.
Ricordo di aver presentato quell’anno tanti autori, di aver raggiunto ottimi risultati; i ragazzi e le ragazze, studiavano molto, scrivevano bene, avevano discreti prerequisiti (significa che arrivavano alla secondaria di secondo grado con buone basi), su mie indicazioni leggevano almeno un libro al mese. Ho ben presente, però, anche la rigida selezione che si abbatteva sulle classi. Chi non raggiungeva gli obiettivi prefissati, veniva respinto. Non esistevano certificazioni di sorta. Gli studenti che non sapevano scrivere bene o fare i calcoli, venivano considerati pigri e inadatti allo studio. Se non avevano alle spalle famiglie con strumenti economici e culturali in grado di sostenerli nello studio, ripetevano l’anno, oppure abbandonavano per sempre la scuola. Tutto qui.
Era una scuola che escludeva, una scuola selettiva. C’era poco ascolto. Ne ho fatto parte e, ripensandoci, cambierei tanto del mio modo di insegnare. Quella scuola non mi piaceva e per fortuna non è la scuola in cui oggi insegno.
La scuola di oggi, rispetto a quella di trent’anni fa, non prevede più in molti casi una idoneità al lavoro (per esempio il diploma per le maestre, dietisti, tecnici di laboratorio, ragionieri etc etc). Trenta anni fa bastava un diploma e un tirocinio e il mondo del lavoro si apriva.
Secondo la sua esperienza è stata una scelta giusta cambiare quella impostazione?
L’impostazione non è cambiata, esistono ancora corsi di studio professionalizzanti. Anche oggi, come nel passato, un geometra, per esempio, dopo il tirocinio e l’esame di abilitazione professionale, può fare il geometra. Il problema è che ora i posti di lavoro rispetto la grande domanda di diplomati e laureati, sono insufficienti, i sociologi lo chiamerebbero credenzialismo: l’aumento della richiesta di titoli e qualifiche, anche non necessari, per svolgere un certo lavoro, porta alla loro progressiva svalutazione. Inoltre le richieste di formazione altamente specializzata sono crescenti e la scuola stenta a stare al passo. Secondo uno studio del World Economic Forum, il 65% dei bambini che attualmente frequenta la scuola primaria svolgerà un lavoro che ancora non esiste, presumibilmente nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Cosa può fare l’istituzione scolastica? Ritengo che, parallelamente ad una formazione che tenga conto delle novità tecnologiche e delle richieste del mondo del lavoro, non debba perdere di vista il suo principale compito, quello della formazione culturale, umana e sociale del futuro cittadino. La scuola deve fornire le basi per un approccio critico ai contenuti di conoscenza, la capacità di adattamento alle situazioni, la flessibilità, il lavoro in team; è questo che costituisce la base per raggiungere il successo professionale in qualsiasi campo.
Si dice sempre che la società è cambiata profondamente, ecco ma, secondo lei, i bisogni effettivi degli studenti dal punto di vista dell’apprendimento e del coinvolgimento, sono cambiati rispetto a quando lei era una studentessa o rispetto agli studenti degli anni ’80 e’ 90 quando era all’inizio della sua carriera?
I ragazzi sono cambiati, certo. I social, i cellulari, Internet… sono nati spazi di aggregazione virtuali impensabili solo venti anni fa. Ed è cambiata la visione che i ragazzi e le ragazze hanno del loro futuro che appare incerto sotto tanti punti di vista: il lavoro, il clima, la famiglia… A 16 anni ho deciso che avrei fatto l’insegnante. Non vi erano dubbi, solo dovevo decidere cosa avrei insegnato, ma ero certa che dopo l’università avrei insegnato, e così è stato. Oggi queste certezze mancano. Vedo ragazzi vivere in un presente “distopico” e distorto, credere in valori aleatori o discutibili quando non del tutto condannabili. Sono ragazzi formidabili, avanti anni luce sotto tanti punti di vista rispetto gli adolescenti della mia epoca, hanno risorse inaspettate, ma sono fragilissimi sul piano emotivo e vengono bombardati da messaggi negativi e contrastanti; vanno capiti, guidati e va chiaramente spiegato loro che l’impegno è fondamentale per raggiungere risultati, che ognuno ha una responsabilità personale e che è possibile fare qualcosa per cambiare il mondo che ci circonda.
Sarebbe un bene recuperare qualcosa dalla scuola del passato, come metodi e programmi? Sì o meglio di no e perché?
Della scuola del mio passato recupererei il tempo che avevo a disposizione.
La scuola attuale è fatta di troppe riunioni, troppa burocrazia; abbiamo tanti alunni che avrebbero bisogno di essere seguiti individualmente, ma il tempo non è quasi mai sufficiente. Tutto questo è faticoso e frustrante. Manca il tempo dell’ascolto. Manca il tempo del far sedimentare. Manca il tempo per l’aggiornamento. E anche se non sono insegnante da “programma da svolgere”, pure sento che avrei bisogno di tempo, più tempo da dedicare alla didattica vera.
Per quanto riguarda i docenti e la loro formazione quali progetti esistono? Se esistono.
Qui tocchiamo un tasto dolente. Manca in Italia una vera formazione in ingresso. Si diventa insegnanti con percorsi universitari abilitanti e concorso. Non esiste più la SISS, Scuola di Specializzazione biennale che formava insegnanti dopo selezioni in ingresso, tirocinio formativo ed esperienza nelle classi con tutor supervisore. Purtroppo non si investe nella formazione in ingresso. Il lavoro dell’insegnante è altamente professionale e carico di responsabilità, ecco perché ritengo necessaria una scuola che formi i futuri insegnanti e ne valuti competenze didattiche e psicoattitudinali. Per fare un esempio, i programmi scolastici, come si intendevano un tempo, non esistono più. Ogni insegnante, stante le indicazioni ministeriali di carattere generale, può strutturare i percorsi che ritiene opportuni. Questo richiede da parte del docente competenze culturali e di progettazione non così scontate.
L’intelligenza Artificiale. Le fa paura? Si dice che verremo tutti sostituiti da questa intelligenza. Che opinione ha in merito a questo tema e alla tecnologia ?
Non mi fa paura. La scuola non dovrebbe essere un microcosmo avulso da ogni contesto, impermeabile ai cambiamenti e alle novità. Sono un’insegnante che qualcuno definirebbe “tecnologica”, nel senso che utilizzo la tecnologia nella mia didattica laddove ne ravviso l’utilità. Ho attuato proprio quest’anno un percorso di ricerca dell’attendibilità delle fonti partendo dalla figura di Ottaviano Augusto e Chat GPT (l’articolo che descrive il percorso è reperibile in rete).
Dietro la cosiddetta Intelligenza Artificiale, c’è l’intelligenza umana che costruisce programmi, software, e che non potrà mai essere sostituita da nessuna macchina. Certo l’AI potrà aiutarci in vari modi (del resto ne facciamo ormai grande uso nella vita di ogni giorno senza nemmeno accorgercene), anche a scuola, ed essere di supporto per studenti e insegnanti, ma il suo utilizzo apre quesiti etici e problematiche non scontate, non ultimo il fatto che l’AI inquina, e anche tanto visto che, ci dicono le ricerche, entro il 2025 il consumo di energia dei datacenter rappresenterà non meno del 10% dell’utilizzo di elettricità nel mondo. A scuola si dovrebbe parlare anche di questo.
Ormai, considerati i livelli di violenza generale, la domanda è d’obbligo: ha mai temuto per la sua persona rispetto ai comportamenti degli studenti o dei loro genitori?
Per fortuna non mi è mai capitato in tanti anni di insegnamento. Ho sempre avuto un rapporto trasparente e sereno sia con gli alunni che con i genitori. Con questi ultimi cerco di instaurare un dialogo costruttivo fin dai primi giorni di scuola. Sono fermamente convinta che senza questa proficua sinergia, sia molto complicato sostenere i ragazzi nel loro percorso di crescita.
Come immagina o sogna la scuola del futuro? C’ è un modello a cui si ispira?
Provo a descrivere il mio sogno: una scuola bella strutturalmente, un edificio funzionale come quelli che ho visitato in Finlandia, con ampi spazi, sale polifunzionali, laboratori, aule colorate e attrezzate e alunni che si spostano anche in autonomia per studiare e fare ricerche. Vedo docenti sereni, soddisfatti del loro lavoro, in grado di supportare gli studenti, autarli a crescere culturalmente e umanamente. Vedo riconosciuto il mio ruolo, il mio impegno come docente, sia dal punto di vista retributivo che sociale.
Da qualche tempo a questa parte sul mondo della scuola si sta giocando al gioco del gettare discredito. Ecco, nel mio sogno vorrei che si entrasse nelle aule per vedere quale tipo di lavoro fanno gli insegnanti, un lavoro non facile ma indispensabile e straordinario.