il demansionamento…cos'è?

Tratteremo stavolta un tema molto sottovalutato.

Ci troviamo all’interno del mondo del lavoro, soggetto a costanti rivoluzioni e riforme da parte dei governi che si succedono e alla continua ricerca di equilibrio, in particolare, fra i due soggetti protagonisti: il datore di lavoro ed il lavoratore o prestatore di lavoro del settore privato.

Desidero parlare nello specifico di demansionamento, cioè della adibizione del lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle per cui è stato assunto. Desidero farlo in una cornice in cui posso permettermi anche di essere critico nei confronti di questo istituto.

Prima di parlare di questo argomento è necessario indicare il quadro normativo. Come sempre accade, ci troviamo in un settore coperto da garanzie costituzionali. Di fatti il datore di lavoro gode del diritto alla libera iniziativa economica, garantita dall’articolo 41 della nostra costituzione, purché sia rispettata la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Dall’altro lato, i cittadini hanno diritto al lavoro, un diritto che la Repubblica promuove e di cui garantisce l’effettività.

Questi diritti sono quindi da immaginare come i piatti della bilancia, destinati a rimanere in equilibrio.

Ruolo importante viene poi svolto dai contratti collettivi, ovvero quegli accordi che vengono stipulati fra le organizzazioni sindacali rappresentative dei datori di lavoro, da un lato, e dai lavoratori, dall’altro, le quali predeterminano (congiuntamente) la disciplina dei rapporti individuali di lavoro e alcuni aspetti dei loro rapporti reciproci.

I contratti collettivi servono a sopperire a quanto la legge non dispone espressamente o in settori la cui definizione espressamente viene rinviata alla libertà delle parti. Ciò delimita, almeno parzialmente, il potere del datore di lavoro di esercitare incondizionatamente l’iniziativa economica. Una garanzia per il lavoratore, adeguatamente rappresentato dalle organizzazioni di categoria.

Ultimo tassello da tenere a mente è il contratto di lavoro. In esso è indicato quale contratto collettivo viene applicato al lavoratore, il quale sa quindi al momento della stipulazione del rapporto di lavoro quale sarà il trattamento economico e normativo che riceverà.

Ciò che probabilmente non sa, o di cui non è pienamente cosciente, è quanto dispone il codice civili proprio sulla questione fondamentale del contratto di lavoro: la prestazione lavorativa.

Infatti l’oggetto del contratto di lavoro è quell’insieme di compiti che il lavoratore dovrà svolgere per il datore di lavoro, che altro non è, in altri termini, che il proprio debito nei suoi confronti. Al tempo stesso il datore di lavoro sarà debitore nei confronti del lavoratore dello stipendio previsto sempre in contratto.

Il legislatore, ispirandosi alle garanzie costituzionali cui si è accennato, ha disposto che il lavoratore non possa mai essere adibito a mansioni diverse da quelle per le quali è stato assunto (se si viene assunti per fare i meccanici non si può fare i segretari). C’è però la concreta possibilità che il datore di lavoro, durante il rapporto, diversifichi le mansioni del proprio dipendente, ovvero gli faccia svolgere mansioni fra loro eterogenee.

Ciò è nei poteri del datore di lavoro, ma solo fino a che non si ricorra nel demansionamento, ovvero l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, in quanto lederebbero la “professionalità” del lavoratore.

Si rende necessario usare le virgolette perché quello della professionalità è stato un concetto giuridico (seppur di non facile interpretazione ed individuazione del caso concreto di lesione) che con l’ultima riforma apportata col decreto legislativo n. 51 del 2015 è stato spazzato via.

Cerchiamo di essere più chiari.

Il lavoratore non poteva essere adibito a mansioni diverse ed inferiori rispetto a quelle svolte per contratto, in quanto si sarebbe lesa la professionalità di un individuo che, se assunto per quel ruolo, in quella categoria e livello contrattuale, era per accertate competenze e conoscenze. Viene quindi da sé che, se adibito a mansioni di livello inferiore, egli non sarebbe nella posizione di mettere a frutto le proprie competenze, trovandosi a svolgere mansioni degradanti o dequalificanti. Da qui il legislatore e gli operatori del diritto hanno dedotto una lesione degna di sentenza di condanna contro i datori di lavoro che demansionano, con cui si poteva obbligare il datore di lavoro al risarcimento dei danni.

Tutto ciò è vero MA, oggi, fortemente limitato con l’avvento del job’s act.

Questa legge, attuata con diversi decreti legislativi fra cui il citato n. 51 del 2015, su questa particolare questione non ha mancato di apportare modifiche, nello specifico eliminando (di fatto) la possibilità per il giudice di esprimersi sulla lesione della professionalità del lavoratore. Ciò che dovrà valutarsi, pertanto, è solamente che il lavoratore sia adibito alle mansioni indicate in contratto…ma non solo…anche a quelle rientranti nel livello inferiore (uno solo), purché nella stessa categoria legale ed in presenza di “giustificati motivi oggettivi”, ovvero di modifica degli assetti organizzativi aziendali.

Torna utile quanto abbiamo detto sui contratti collettivi, poiché è in essi che vengono indicate le mansioni, divise in livelli.

Il legislatore dell’ultima riforma è intervenuto rendendo lecito e legittimo qualcosa che prima (del 2015) era unanimemente un’intollerabile patologia del modo del lavoro.

E non è tutto.

Ulteriori modifiche sul tema delle mansioni, che si specifica son tutte contenute nel nuovo articolo 2103 del codice civile, riguardano casi che rendono ancor più esteso il potere datoriale di modificare in peggio le mansioni del dipendente.

È infatti possibile che siano i contratti collettivi stessi ad indicare ulteriori ipotesi di adibizione (lecita) del lavoratore a mansioni di un livello inferiore. Con ciò il legislatore permette pure si possa prescindere da motivi oggettivi riguardanti l’azienda.

Inoltre, ancora, in sede protetta (qual è ad esempio il distretto territoriale del lavoro) possono essere datore di lavoro e lavoratore stesso a stipulare un accordo con cui il lavoratore accetta di svolgere mansioni inferiori.

Tale ultima ipotesi è quella che vedo con maggior favore in quanto soddisfa diverse necessità riguardanti sia il lavoratore che il datore di lavoro, tra l’altro in un contesto di protezione per i diritti del lavoratore in particolare.

Tolta quest’ultima ipotesi, la riforma del 2015 ha sollevato più perplessità che successi. Intanto si è declassata fino ad azzerarla, a parere di chi scrive, la professionalità del lavoratore*, che non si vedono ragioni per le quali debba avere valore solo entro una cornice “statica” predeterminata, e ciò nemmeno per volere del legislatore, che altro non fa che derogare questa responsabilità, nella sostanza, alla contrattazione collettiva, cioè ad uno strumento che è già il risultato di un compromesso fra lavoratori e datori di lavoro, e soprattutto che pone da sempre problemi quanto alla sua efficacia (il contratto collettivo non è una legge, essendo un contratto esso vale solo fra le parti che lo sottoscrivono).

La dottrina si è già posto il problema della tutela dei lavoratori dipendenti di datori di lavoro che non hanno sottoscritto alcun contratto collettivo! Entro quali limiti possono esercitare il loro potere datoriale sulle mansioni se non hanno un contratto cui riferirsi?! Caso che, se non risolto con certezza del diritto, potrebbe incentivare i datori di lavoro a non sottoscrivere altri contratti collettivi una volta scaduti quelli attualmente in vigore.

Per di più la giurisprudenza più coraggiosa non ha smesso di parlare di professionalità, pur sottolineando essa stessa (parliamo di Corte di Cassazione) una malcelata preoccupazione per il futuro e per i lavoratori.

A parere di chi scrive ci troviamo di fronte ad un attentato contro un diritto fondamentale non solo del lavoratore che è, e non può che rimanere, la dignità umana. Questo non è un bene disponibile delle parti e , se anche lo fosse,non può essere sacrificata o contrattata da una organizzazione sindacale rappresentativa di una categoria!

Un contratto collettivo che preveda un insieme variegato di mansioni distribuite su pochi livelli, può portare agevolmente alla frustrazione della professionalità (seppure sia stato eliminato questo concetto, si ritiene erroneamente) di un lavoratore che si trova costretto a svolgere quanto convenuto nel contratto di lavoro, ma anche quanto gli si può pretendere che svolga perché rientrante in un livello inferiore.

Tra l’altro i contratti collettivi, che sono soggetti a rinnovi, possono cambiare nel loro contenuto, ed il risultato non può che dipendere direttamente dalla forza delle parti che siedono al tavolo sindacale. Sono del parere che pur essendo pacifico l’affidamento ai privati della ridefinizione delle mansioni e dei livelli nei contratti collettivi, non sia opportuno che la condizione di lavoro e di vita del dipendente sia affidata al medesimo meccanismo, soprattutto con la consapevolezza, fin dalla prima lezione di diritto del lavoro all’università, che il contratto di lavoro non è stipulato fra pari, ma fra un soggetto forte (il datore di lavoro) ed uno più debole (il lavoratore).

 

 

*se è pur vero che non dovrebbe più parlarsi di professionalità, non può negarsi che la scelta del legislatore di consentire un demansionamento fino ad un solo livello inferiore può ragionevolmente trovare giustificazione, in ogni caso, in una tutela della professionalità, non più, pertanto, discrezionalmente valutata dal giudice, ma disegnata nei suoi limiti dal legislatore stesso. Ciò contrasta però non la realtà, e disegna in maniera (pare) opportunistica una disciplina di favore per il datore di lavoro che non di equilibrio fra i diritti di entrambe le parti.

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2021-09-22

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