Per esercitare la professione di giornalista è necessaria l’iscrizione nell’elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti; l’inosservanza di detta previsione è punita ai sensi dell’art. 348 e 498 del codice penale, ove il fatto non costituisca più grave reato.
L’imputato partecipava in realtà a conferenze stampa, effettuava interviste, curava servizi di cronaca per una testata televisiva, commentava confronti politici, faceva parte di detta testata televisiva in modo “organizzato” e vi svolgeva in modo continuativo dette attività. L’attività svolta dall’imputato aveva inoltre natura informativa e lo stesso imputato soleva definirsi come un giornalista non iscritto all’albo.
È quanto affermato dalla Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione nella sentenza pubblicata il 1° marzo 2023 n. 8956 con la quale la Suprema Corte ricostruisce la fattispecie in scrutinio alla luce dell’evoluzione normativa e della giurisprudenza di legittimità.
Un caso analogo è stato recentemente deciso anche dal Tribunale di Caltagirone, la cui sentenza non è reperibile, in cui un collaboratore di una emittente privata del Catanese è stato condannato per esercizio abusivo della professione a quattro mesi di reclusione e settemila euro di multa oltre al pagamento delle spese processuali. L’imputato avrebbe per quattro anni svolto attività giornalistica senza essere iscritto all’ordine professionale.
Preliminarmente è doverosa una breve considerazione sul reato di esercizio abusivo di una professione, ex art. 348 del codice penale.
Esercitare abusivamente una professione costituisce un reato contro la pubblica amministrazione. La ratio della norma è infatti quella di assicurare che determinate attività vengano svolte esclusivamente da chi possegga comprovate competenze, nonché determinati requisiti morali e professionali previsti per legge. La norma quindi tutela l’interesse pubblico affinché determinate attività delicate, socialmente rilevanti, vengano svolte solamente da chi possegga gli accertati requisiti morali e professionali. Motivo per il quale il reato è perseguibile d’ufficio.
Soggetti passivi del reato sono, sia lo Stato, sia i privati. Non costituisce causa di giustificazione il consenso liberamente prestato del privato – cliente – all’esercizio abusivo della professione.
Il reato ha natura istantanea, nel senso che è sufficiente la commissione anche di un solo fatto tipico riferibile all’esercizio della professione. Sul punto, la Cassazione ha precisato che integra la fattispecie delittuosa anche la commissione di atti relativamente liberi (non esclusivi di quella determinata professione), i quali, poiché connessi agli atti tipici, possono dare l’apparenza dell’esercizio della professione se svolti in modo organizzato, continuativo e remunerato, e perciò tali da creare le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta in maniera lecita. Mentre gli atti “tipici”, per essere perseguibili penalmente, possono anche essere svolti gratuitamente.
L’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico: consapevolezza della mancanza dell’atto abilitativo e volontà di porre in essere attività riconducibili ad una professione tutelata.
Fatta questa premessa, esaminiamo le fonti normative.
La fonte normativa che regolamenta la materia è la Legge 3 febbraio 1963 n. 69, più segnatamente gli articoli 1, 31 e 45, come modificato dalla Legge 26 ottobre 2016 n. 198.
Nello specifico, l’art. 1 primo e secondo comma della citata legge prevede che “all’Ordine dei giornalisti appartengono i giornalisti professionisti e i pubblicisti, iscritti nei rispettivi elenchi dell’Albo. Sono professionisti coloro che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione di giornalista. Sono pubblicisti coloro che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi”.
L’art. 35 prevede invece che “Per l’iscrizione all’elenco dei pubblicisti la domanda dev’essere corredata, oltre che dai documenti di cui ai numeri 1) 2) e 4) del primo comma dell’articolo 31, anche dai giornali e periodici contenenti scritti a firma del richiedente, e da certificati dei direttori delle pubblicazioni, che comprovano l’attività pubblicistica regolarmente retribuita dai almeno due anni”.
Le sopra richiamate due disposizioni normative devono essere necessariamente interpretate anche alla luce dell’art. 45 comma primo della stessa legge, come modificato dalla Legge 26 ottobre 2016 n. 198, in quanto strettamente connesso. La norma prevede infatti che “Nessuno può assumere il titolo né esercitare la professione di giornalista, se non è iscritto nell’elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti dell’albo istituito presso l’Ordine regionale o interregionale competente. La violazione della disposizione del primo periodo è punita a norma degli articoli 348 e 498 del codice penale, ove il fatto non costituisca un reato più grave”.
In estrema sintesi, per la Cassazione, per esercitare la professione di giornalista è necessaria l’iscrizione nell’elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti, e che l’inosservanza di questa previsione è punita ai sensi dell’art. 348 del codice penale.
Questo è il quadro normativo di riferimento.
Per quanto riguarda, invece, l’orientamento giurisprudenziale, la Corte con la sentenza in commento ricorda che la giurisprudenza di legittimità, già prima della modifica apportata dalla legge n. 198/2016 sopra citata, aveva chiarito che, al di là della distinzione tra professionisti e pubblicisti, poiché la Costituzione garantisce a tutti il diritto di manifestare il proprio pensiero liberamente e con ogni mezzo di diffusione, ogni cittadino può svolgere, episodicamente, l’attività di giornalista e dunque non commette il reato di abusivo esercizio della professione di giornalista, di cui agli arti. 348 codice penale e 45 della legge 3 febbraio 1963 n. 69, colui che, senza essere iscritto all’albo dei giornalisti o in quello dei pubblicisti, collabori saltuariamente ad un periodico (Cass. Sezione VI Penale n. 428 del 02.04.1971).
Entro tale limite, costituzionalmente garantito, ogni cittadino può quindi liberamente svolgere episodicamente l’attività di giornalista senza essere iscritto nel relativo Albo e senza incorrere nel reato di abusivo esercizio della professione di giornalista.
Integra, invece, il reato di esercizio abusivo di una professione, ex art. 348 del codice penale., il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano tuttavia univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuità, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato (Cassazione, Sezioni Unite Penale, n. 11545 del 23 marzo 2012).
In tale quadro di riferimento, prosegue la Suprema Corte, i Giudici di merito hanno spiegato, in punto di fatto, dopo aver ricostruito i fatti e valutato le prove, che l’imputato partecipava a conferenze stampa, effettuava interviste, curava servizi di cronaca per una testata televisiva, commentava confronti politici, faceva parte di detta testata televisiva in modo “organizzato” e vi svolgeva in modo continuativo dette attività, e che l’attività svolta dall’imputato aveva natura informativa e che lo stesso imputato soleva definirsi come un giornalista non iscritto all’albo.
A fronte di una trama argomentativa adeguata e obiettivamente chiara, conclude la Corte, il ricorso rivela la sua strutturale inammissibilità in quanto “non chiarisce perché l’attività svolta dall’imputato non sarebbe riconducibile a quelle per le quali è necessaria l’iscrizione l’albo, né spiega sulla base di quali elementi i Giudici di merito avrebbero errato nel ritenere continuativa l’attività svolta dal ricorrente”.