Carlo Felice ma la sua statua non tanto

Una “damnatio memoriae” in salsa Casteddaia. Potremmo prendere in prestito il noto provvedimento di romana origine per definire sarcasticamente quanto accaduto ieri intorno alle 10, ai piedi della famosissima statua di Carlo Felice in piazza Yenne a Cagliari. Un gruppo di cittadini riunitisi spontaneamente tramite i social network ha organizzato una manifestazione per chiedere di spostare il monumento, raffigurante (a lor dire) solamente un tiranno sabaudo e quindi indegna di occupare quello spazio.

Niente di nuovo sotto il sole, visto che la città ha già assistito a qualcosa di simile quando, nell’ottobre del 2012, la statua fu oggetto di un “trattamento artistico” in stile Christo, anche se crediamo fermamente che l’occultamento della stessa con un enorme lenzuolo bianco che la faceva apparire quasi come un fantasma, non avesse certo come intento quello di porne in risalto la presenza ma al contrario la malriuscita volontà di occultarla.

Se ci addentrassimo ad analizzare le motivazioni culturali e politiche di questa adunanza, trascenderemo sicuramente i fini della presente rubrica e vogliamo quindi concentrarci su quanto concerne strettamente il campo artistico.

La maestosa statua neoclassica in bronzo raffigurante il sovrano domina Cagliari sul basamento del Cima sin dal 1860. Opera di Andrea Galassi, avrebbe dovuto non solo essere un omaggio al viceré (poi divenuto re) sabaudo ma anche indicare attraverso il braccio teso dello stesso, la direzione della regia strada per Porto Torres. Avrebbe, perché in realtà la direzione indicata è quasi opposta.

Nel tempo, al di là del valore intrinseco di un’opera di questo tipo, il monumento si è arricchito di significati, da quello di semplice punto di riferimento noto pressoché a chiunque, alla nota usanza di natura sportiva che vede il sovrano essere il primo porta vessillo dal cuore rossoblù ad ogni celebrazione per i successi del Cagliari Calcio.

Ci hanno sempre insegnato che decontestualizzare un’opera è una questione delicata, perché opera e paesaggio circostante vivono una relazione simbiotica che va ad interessare i significati dell’una e dell’altro non solo in termini semiotici, ma anche urbanistici, sociali, ecc.

Ancor più in un caso come questo ci viene spontaneo dunque chiederci che validità possa avere la proposta di spostare un’opera come questa e il suo carico di significati, recidendo i legami con lo spazio che da quasi due secoli la accoglie, per poter dire (da uomini del “futuro”) di esserci presi la “rivincita” sul sovrano oppressore. La storia rimane storia e deve essere necessariamente letta contestualizzando i fatti nell’epoca in cui avvennero. Nessuno vuole dunque sminuire i martiri di Palabanda, ma prendersela con un’opera d’arte sembra davvero inutile.

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2016-04-30

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