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Dantedì in collegamento con Lima, Perù

Dantedì in collegamento con Lima, Perù

25 marzo, 701^ Giornata nazionale dedicata al sommo poeta Dante Alighieri.

Venerdì 25 marzo 2022 si è celebrato il Dantedì la Giornata nazionale dedicata al sommo poeta Dante Alighieri. Un’occasione per riscoprire l’incommensurabile eredità lasciata da uno dei maggiori autori della letteratura italiana che non è solo patrimonio di accademici e studiosi, ma soprattutto una parte considerevole della nostra identità culturale nazionale.
L’Unione italiana di Lima, assieme al Presidente Prof. Alessio Lodes, il vicepresidente Avvocato Aldo Polack Cavassa, il Direttivo Hector Zapattero, Fabiola Pereola, l’Associazione Agape SOS International rappresentata dalla Presidente Rita Pasini, la dottoressa Silvia Lizer, la discente dell’ istituto Antonio Raimondi Alessandra Palomino, Ruggero e gli amici brasiliani, diversi membri della UIL, hanno celebrato online mediante la piattaforma Google meet il sommo poeta.
Il Presidente Lodes ha iniziato ricordando che il bel paese pare fuori dai mondiali di calcio, ma il popolo italiano ha una ricchezza e splendore invidiabile a tutto il mondo: la cultura e il 25 marzo l’Alighieri, che mai potrà essere dimenticato o trascurato.
La disquisizione iniziata alle ore 23 in Italia, alle 17 a Lima in Perù è iniziata ricordando che il poeta nacque tra il maggio e il giugno del 1265 da una famiglia della piccola nobiltà. Uno degli eventi più importanti della vita di Dante è stato l’incontro con Beatrice, la donna che ha amato ed ha esaltato come simbolo della grazia divina. Beatrice sarebbe realmente vissuta: gli storici l’hanno identificata nella nobildonna fiorentina Beatrice o Bice Portinari, morta nel 1290. Per quanto riguarda la prima parte della vita di Dante non si hanno molte informazioni a proposito della sua formazione, anche se le sue opere rivelano una grande erudizione. A Firenze è stato profondamente influenzato dal letterato Brunetto Latini e sembra che intorno al 1287 abbia frequentato l’Università di Bologna.
Durante i conflitti politici di quegli anni, Dante si e schierato con i guelfi contro i ghibellini e nel 1289 ha partecipato ad alcune azioni militari. nel 1295 ha iniziato l’attività politica iscrivendosi alla corporazione dei medici e degli speziali. Quando la classe dirigente guelfa si è spaccata tra bianchi e neri, Dante si è schierato con i bianchi che avevano il governo della città. Ha ricoperto vari incarichi e nel 1300, dopo una missione diplomatica a San Gimignano, è stato nominato priore.
Ruolo che ha ricoperto con senso di giustizia e fermezza, tanto che, per mantenere la pace in città, ha approvato la decisione di esiliare i capi delle due fazioni in lotta quasi quotidiana, tra i quali l’amico Guido Cavalcanti.
Probabilmente Dante è stato uno dei tre ambasciatori inviati a Roma per tentare di bloccare l’intervento di Papa Bonifacio VIII a Firenze. Non si trovava in città quando le truppe angioine hanno consentito il colpo di stato dei neri nel novembre 1301.E’ stato accusato di concussione in contumacia prima a un’enorme multa e poi a morte nel marzo 1302. In questo modo è iniziato l’esilio che sarebbe durato fino alla morte. Alla notizia dell’elezione al trono imperiale di Enrico VII di Lussemburgo, si è avvicinato ai ghibellini, ma la spedizione dell’imperatore in Italia è fallita.
Durante gli anni dell’esilio Dante si è spostato nell’Italia settentrionale tra la Marca Trevigiana e la Lunigiana e il Casentino, e forse si è spinto fino a Parigi tra il 1307 e il 1309. Si recato poi insieme ai figli, forse nel 1312, a Verona presso Cangrande della Scala, dove è rimasto fino al 1318. Da qui si è recato a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, dove ha riunito attorno a sé un gruppo di allievi tra cui il figlio Iacopo, che si accingeva alla stesura del primo commento dell’Inferno. E’ morto nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321 a Ravenna e nemmeno le sue spoglie sono mai rientrate a Firenze.
Il Prof Lodes ha ricordato i milioni di italiani che hanno studiato Dante a scuola, che hanno letto i canonici trenta canti (o meno) di tutto il poema e che così facendo hanno perso persino la percezione del fatto che si trattasse di una straordinaria opera narrativa oltre che poetica.
Il Prof Lodes ha evidenziato parlando dell’Inferno una sorta di fascino del male: il segreto dell’Inferno. Si tratta della cantica più visionaria e più rappresentata dai pittori di tutti i tempi. In più ha la struttura narrativa di un videogame, che ripete più volte lo stesso schema (ambientazione della pena, figure demoniache, dannati di turno che raccontano la propria storia) e di livello in livello si complica: la pena è più crudele, i diavoli più cattivi, i dannati più spietati. Il Purgatorio ad esempio ha la struttura inversa, è un cammino che via via si alleggerisce verso la cima. Più si va, più è semplice per il viaggiatore, come spesso succede nelle attività della vita: un esempio, quando impari a suonare uno strumento all’inizio è noioso e faticoso, alla fine leggero e bellissimo. Malgrado la vita somigli spesso di più al Purgatorio, normalmente si preferisce la pratica vagamente masochista del videogame. Bisognerebbe riflettere su questo. Non a caso un videogame dell’Inferno esiste, del Purgatorio no.
L’espositore ha sottolineato come nelle sue grandi linee il sistema morale dell’Inferno dantesco, malgrado siano trascorsi 701 anni, abbia una straordinaria tenuta. La differenza è più quantitativa che qualitativa: oggi per compiere scelleratezze disponiamo di mezzi incredibilmente più sofisticati. Un esempio: una speculazione in borsa sul prezzo futuro dei cereali, facendolo aumentare nel presente, può causare la morte per fame di centinaia di migliaia di esseri umani nei paesi più poveri. Dante ne avrebbe punito gli autori tra i violenti contro Dio, natura e arte, e noi non potremmo fare di meglio. Ciò che cambia in modo agghiacciante sono ovviamente le dimensioni di fenomeni del genere. Tra i peccatori contro natura, poi, invece che i sodomiti, potremmo mettere i responsabili dei grandi disastri ambientali.
La politica ai suoi tempi era forse meno complessa, più diretta ma anche molto più rischiosa, facile pagarne il prezzo con la vita. Ma già allora Dante era consapevole che l’unico modo per salvare l’Italia da se stessa e dalla propria inconcludente rissosità politica sarebbe stato farne una parte dell’Europa.
Il Prof. Lodes ha infine sottolineato come
i versi del Sommo Poeta siano entrati di fatto nel linguaggio popolare diventando un fondamento integrante del parlato quotidiano.
A volte potrebbe capitare persino di citare la Divina Commedia senza sapere di star citando l’opera summa della nostra letteratura. Possiamo sentire una frase del poema pronunciata da una delle nostre nonne oppure da uno sconosciuto nelle situazioni più impensabili. Perché non occorre aver studiato Dante per citare Dante: la grandezza del Sommo Poeta risiede anche nel suo talento nel comporre un’opera popolare fruibile da tutti, comprensibile da chiunque tanto da divenire parte del linguaggio quotidiano.
Questa la meravigliosa eredità dell’Alighieri ad oltre 700 anni dalla sua morte: l’aver trasformato un’opera letteraria in un frammento di linguaggio, aver saputo legare in modo inestricabile e profondamente interconnesso letteratura e linguistica.
A fine disquisizione il conferenziere ha enucleato ed elencato alcune delle più famose frasi di Dante che oggi sono diventate dei modi di dire:

Nel mezzo del cammin di nostra vita

Lo straordinario incipit della Divina Commedia è certamente uno dei versi più citati della letteratura mondiale. Con questa frase, citata nel primo canto dell’Inferno, Dante introduce il lettore all’opera, lo rende immediatamente partecipe: l’uso del termine “nostra” infatti vuole sottolineare che Dante intraprende questo viaggio rappresentando l’intera umanità.
Oggi la frase nel parlato comune viene utilizzata soprattutto come metafora per sottolineare il percorso della vita: “siamo nel mezzo del cammino della vita”, o per intendere la fascia d’età tra i trenta e i quarant’anni, considerata appunto la fase di mezzo tra gioventù e vecchiaia.

Per me si va ne la città dolente
Siamo nel Canto III dell’Inferno. Dante e Virgilio si trovano nell’Antinferno dove scorre il macabro fiume Acheronte.
Le parole impresse sulla porta ammoniscono i due viandanti che stanno per varcare un luogo di pena e di dolore dal quale non si fa ritorno.
Oggi l’espressione è utilizzata come metafora per indicare l’inizio di un periodo di pene o il dovere di recarsi a un appuntamento sgradito.

Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate
Gli ultimi versi scolpiti sulla porta d’ingresso dell’Inferno recitano queste parole che suonano come una condanna. Siamo nel Canto III dell’Inferno e Dante e Virgilio si apprestano a varcare la soglia della porta infernale. L’iscrizione li ammonisce ricordando loro che le pene infernali sono eterne, le anime che si accingono a entrare in quel luogo si preparano a vivere punizioni e tormenti senza fine.
Oggi la frase viene usata soprattutto con ironia per indicare una situazione “senza speranza” oppure la fine di ogni speranza e consolazione.

Vuolsi così cola’ dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare
Canto III dell’Inferno. La frase viene ripetuta da Virgilio per ben due volte nel dialogo con il traghettatore infernale Caronte.
Caronte aveva invitato Dante a tornare indietro e a non inoltrarsi nell’esplorazione del regno dei morti, ma Virgilio lo redarguisce con queste parole ammonendolo a non chiedere altro.
La perifrasi “colà dove si puote ciò che si vuole” indica il Paradiso, dove si trovano coloro che hanno comandato il viaggio di Dante.

Il significato traducibile nell’espressione: “Questa è la volontà di chi detiene il potere, non chiedere altro”.
Nel linguaggio comune oggi viene utilizzata per invitare, in maniera elegante, una persona a non insistere e a non fare troppe domande su una determinata questione.

Non ragioniam di lor, ma guarda e passa (specificare che non è Non ti curar di loro, ma guarda e passa)
Si tratta della diciassettesima terzina del Canto III dell’Inferno. La frase è pronunciata da Virgilio per consolare Dante. I due si trovano nel cerchio degli Ignavi, coloro che nella vita non hanno mai preso decisioni o affrontato responsabilità. Lo spirito di Dante disprezza fortemente persone di tal fatta, e il suo disprezzo passa attraverso le parole di Virgilio che lo invita a non lasciarsi prendere dal rancore ma ad andare oltre.
Oggi la frase è spesso citata con la variante errata “Non ti curar di loro” che è entrata nel lessico comune, tuttavia non corrisponde all’originale.
L’espressione viene utilizzata per invitare a non perdere tempo con persone meschine o non degne della nostra considerazione.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
Siamo nel Canto V dell’Inferno e Dante, guidato da Virgilio, ha appena incontrato la coppia di amanti Paolo e Francesca condannati nel cerchio dei Lussuriosi a vagare trasportati da un vento perenne.
Con questo verso Dante vuole sottolineare la potenza dell’amore. “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende”, e cioè “l’amore, che divampa in un attimo nel cuore gentile”, è una forza potentissima, che supera la volontà dell’individuo e vince tutte le resistenze.
Ancora oggi la frase viene citata nel linguaggio comune per descrivere l’amore come una forza inevitabile che tutto travolge e alla quale non è possibile opporsi.

Galeotto fu’ l libro e chi lo scrisse
Siamo sempre nel Canto V dell’Inferno, nel cerchio dei lussuriosi. La celebre dichiarazione viene fatta per bocca di Francesca da Rimini che racconta a Dante la storia del suo amore per Paolo.
Francesca narra la passione adultera per Paolo scoppiata all’improvviso mentre leggevano per diletto dell’amore tra Lancillotto e Ginevra. Il bacio adultero dei due personaggi invita i due lettori a imitarlo. Per questo Francesca afferma che «il libro» (il romanzo cavalleresco) è stato il “Galeotto” (era il siniscalco, il servitore della regina, che faceva da intermediario tra lei quest’ultima e i cavalieri, Ndr) tra lei e Paolo.
Oggi usiamo la parola “galeotto” per indicare un “intermediario amoroso”.

Fatti non foste a viver come bruti
La celebre terzina pronunciata da Ulisse nel Canto XXVI dell’Inferno: Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” è la sintesi del profondo pensiero di Dante, il quale considerava la ricerca e il conseguimento delle virtù e della conoscenza, cioè del sapere trascendente, la vera ragione dell’esistenza umana.
Oggi il verso viene più volte ripetuto come ammonimento per ricordare l’importanza dello studio e della cultura nella vita umana.

E quindi uscimmo a riveder le stelle
Siamo nel Canto XXXIV dell’Inferno, per la precisione si tratta dell’ultimo verso dell’Inferno.
Dante e Virgilio si sono lasciati alle spalle i gironi infernali, finalmente i due riescono a contemplare il cielo notturno e stellato dell’altro emisfero. Le stelle simboleggiano la speranza, da lì è visibile il cielo stellato: la tenebra infernale è ormai lontana. Da qui il percorso proseguirà verso il Purgatorio.
Nel linguaggio comune la frase oggi indica l’inizio di una nuova speranza, la visione di un barlume di luce dopo le tenebre, la fine di un brutto periodo.

L’amor che move il sole e l’altro stelle
Siamo in Paradiso, nel XXIII Canto della Divina Commedia. Dopo una fugace visione di Dio, Dante sente che l’Amore divino sta ormai muovendo anche il suo desiderio e la sua volontà.
In questo verso Dante racchiude il significato dell’intera opera, di Dio, dell’universo, del fatto che l’amore è il meccanismo all’origine del mondo e dell’esistenza stessa.
Oggi la frase viene utilizzata come metafora dell’amore divino per descrivere l’esperienza di comunione totale con la vita e con l’universo.

Alle OO:30 la disquisizione e’ terminato e il Prof Lodes, assieme al Direttivo UIL ha ricordato che nel mese di aprile son stati programmati per la UIL due incontri: uno sulla storia romana ed un altro su Pier Paolo Pasolini e quam primum se ne darà avviso tramite email e whatsapp.

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Alessio Lodes

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